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Poveri, carità e sinodalità. La relazione integrale del cardinale Francesco Montengro all’assemblea delle Caritas parrocchiali

Pisa, 26 novembre 2021 (le relazione integrale del cardinale Francesco Montenegro all’assemblea diocesana delle Caritas parrocchiali) –  Tenterò di mettere insieme il discorso dei poveri e della carità con ciò che impegna la Chiesa in questo momento: la sinodalità.

C’è chi pensa a questa parola con timore, chi come un semplice intervento da estetista, chi come una tinteggiatura da dare a un vecchio edificio, chi un’ulteriore occasione per stilare documenti e chi un ennesimo tentativo per rinforzare una struttura che sembra indebolita.

Ma, in effetti, a sentire Papa Francesco, il Sinodo è una dimensione non facile da viversi, ma è da conquistare quotidianamente e non sarà perfettamente raggiunta. Il suo compito non è di fare “un’altra Chiesa”, ma una “Chiesa diversa” dove non c’è posto per gli spettatori o le comparse, in quanto lo Spirito è stato dato a tutti i battezzati.

Il sinodo è un “itinerario di sincerità” perché ogni Chiesa particolare, “diventi esperta nell’arte dell’incontro”, perciò sappia “stabilire maggiori legami di amicizia con la società e il mondo per farsi carico delle fragilità e delle povertà del nostro tempo, curando le ferite e risanando i cuori feriti con il balsamo di Dio“. Senza questo non saremo la Chiesa del Signore. Infatti “partecipare tutti: è un impegno ecclesiale irrinunciabile!“. Basta essere battezzato, “questa è la carta d’identità“.

Il Sinodo è “un fatto di fede”, dice il Papa. Tutti i battezzati abbiamo una Parola da custodire, da annunziare, da fare “diventare carne”, per rendere cioè presenti le parole, i gesti, il modo di pensare e amare di Dio.

Nel termine “tutti“ rientrano anche i poveri, infatti il papa si pone la domanda: “ma i poveri, i mendicanti, i giovani tossicodipendenti, tutti questi che la società scarta, sono parte del Sinodo? Sì: non lo dico io, lo dice il Signore: sono parte della Chiesa. E se non vai da loro per stare un po’ con loro, per sentire non cosa dicono ma cosa sentono, anche gli insulti che ti danno, non stai facendo bene il Sinodo. Il Sinodo comprende tutti”. Il Sinodo “è anche fare spazio al dialogo sulle nostre miserie… Ma se noi non includiamo i miserabili della società, quelli scartati, mai potremo farci carico delle nostre miserie. E questo è importante: che nel dialogo possano emergere le proprie miserie, senza giustificazioni. Non abbiate paura!”.

Fidiamoci e lasciamoci perciò guidare da Papa Francesco. Nell’incontro del cinquantesimo della Caritas Italiana ci ha indicato e consegnato tre vie. Rifletteremo nel nostro incontro su di esse.

La prima è “la via degli ultimi. È da loro che si parte, dai più fragili e indifesi. Se non si parte da loro, non si capisce nulla”.

Non sembra tanto un consiglio quanto un’indicazione precisa che però ribalta il nostro rapporto con gli ultimi. Per noi i poveri sono un’appendice (un’appendicite?!?) o un ingrediente non necessario anche se opportuno, ci servono, infatti, per misurare la nostra bontà. La carità è spesso vista come un ‘perciò’, una conseguenza della Parola e della preghiera. Il mio professore di liturgia affermava che l’ordine da rispettare invece è: carità, Parola e Liturgia. La carità fa chiedere ‘perché?’, la Parola aiuta a comprendere il perché dei gesti di condivisione, e la conseguenza è la lode a Dio.

Il Papa pensa i poveri come un necessario punto di partenza.

Dicendo che «la carità è la misericordia che va in cerca dei più deboli, che si spinge fino alle frontiere più difficili per liberare le persone dalle schiavitù che le opprimono e renderle protagoniste della propria vita», e in qualche modo contesta la prassi di incontrarli in giorni stabiliti dalla nostra organizzazione pastorale (per es. stranamente molte mense si chiudono in estate, si donano vestiti fuori stagione) e ci invita a cercarli e a guardare la realtà come loro la guardano. Mi vengono in mente le parole di Mons. Bello: «Amiamo i poveri, cerchiamoli, inseguiamoli, snidiamoli dai loro nascondigli, facciamone l’inventario così come lo facciamo degli oggetti preziosi delle nostre chiese. Scusiamoli, perdoniamoli, chiudiamo un occhio sulla loro mancanza di educazione, aiutiamoli a crescere, con stile paziente, senza infastidirci, senza trovare scuse, forse anche nel loro peccato, al nostro ingiustificabile disimpegno».

Papa Francesco sottolinea che se non siamo capaci di guardarli negli occhi e di toccarli non c’è la vera carità. Si è espresso così: «Quando lei dà l’elemosina, guarda negli occhi quello o quella a cui la dà?». «Ah, non me ne sono accorto». «Quando dà l’elemosina, tocca la mano del povero, o gli getta la moneta?». Probabilmente li guardiamo, ma ci viene difficile toccarli. Forse è come se volessimo mettere una barriera tra noi e loro, quasi a volerne sottolineare la differenza. Questo fa pensare a Follereau che definiva l’elemosina: «l’osso gettato al cane».

I poveri non sono un peso solo per la società che li inventa e poi tenta di nasconderli, ma purtroppo lo sono anche per le nostre comunità. Li abbiamo confinati alla porta della chiesa; non trovano posto attorno all’altare e non sono inseriti nella comunità; devono accontentarsi dell’assistenza che noi diamo, che però spesso non è tanto risposta ai loro bisogni, quanto l’espressione del desiderio di fare del bene, che però non sempre è fatto bene. Forse esagero nel chiedere se non è strano il fatto che si deleghi l’amore al gruppo della Caritas, liberandoci così da ogni fastidio, semmai limitandoci a foraggiare le attività caritative? Eppure, se c’è una cosa che non è delegabile è proprio l’amore. Per assurdo, allora potrei delegare un’altra persona ad andare alla Messa domenicale. L’Eucaristia e i poveri non sono sacramenti dello stesso Gesù?

«È – aggiunge il Papa – è con i loro occhi che occorre guardare la realtà, perché la guardano in modo differente dal nostro. Dalla prospettiva dei vincenti, appare bella e perfetta. I poveri invece mettono il dito nella piaga delle nostre contraddizioni e inquietano la nostra coscienza in modo salutare, invitandoci al cambiamento. E quando il nostro cuore, non si inquieta, dovremmo fermarci: qualcosa non funziona».

Chiediamoci: cosa ha visto l’uomo mezzo morto quando è stato avvicinato dal samaritano? Se avessimo seguito la scena dal balcone, avremmo visto due personaggi importanti passare diritto e un terzo fermarsi e, forse, avremmo cominciato a fare qualche statistica. L’uomo ferito quando li ha visti è stato travolto da sentimenti ed emozioni contraddittori che hanno aumentato la sua sofferenza, colpendolo duramente di nuovo. Li avrà riconosciuti dai loro abiti, e avrà, per un istante, sperato che i due uomini del tempio lo avrebbero aiutato. E invece i due non hanno neppure sentito il bisogno di rendersi conto se fosse ancora vivo. E li ha visti andare via. «Che delusione! Ma come, proprio loro scappano – avrà pensato l’uomo». I due rappresentano un rischio che tutti possiamo correre: la superficialità. Papa Francesco a Lampedusa l’ha definita la «globalizzazione dell’indifferenza».

E quando gli si è avvicinato il samaritano? L’avrà riconosciuto dal vestito, ma avrà anche notato qualcosa di strano: si sarà sentito guardato ma non con curiosità, ma con gli occhi del cuore. Gli occhi parlano! Dicono se siamo distratti, se siamo presi da chi abbiamo davanti, se siamo commossi, contenti, tristi. Hanno la grande capacità di rendere visibile ciò che non lo è. Ebbene l’uomo ferito, si sarà accorto di essere fissato con compassione. È uno sguardo che sconvolge tutto, infatti, se non si guarda col cuore non resta che andare oltre. È da uno sguardo appassionato che scaturiscono la compassione, il fasciare le ferite, il caricarlo sulla giumenta, portarlo nell’albergo e il resto. Per capire cosa voglia dire guardare col cuore e avere compassione, rileggiamo il versetto dell’AT, che fotografa la condizione del popolo d’Israele in Egitto: «Gli israeliti alzarono grida di lamento che salirono a Dio. Dio guardò da quel lato, e se ne prese pensiero» (Es 2,25-25). La liberazione di Israele ha inizio con questo sguardo appassionato; da lì in avanti leggiamo nella Bibbia di un Dio che, commosso per il Suo popolo, prende la decisione di salvarlo. È stato scritto che da quello sguardo in poi si è persa la pace sia in cielo che in terra.

Il samaritano era uno scomunicato perché i suoi padri si erano contaminati con popolazioni pagane; tuttavia, doveva essere cresciuto con l’immagine di un Dio che si prende cura delle sue pecore (Ez 34,16) e le cui viscere si muovono come quelle di una donna incinta quando in ballo c’è la propria creatura (Os 11,8). L’uomo ferito si sarà accorto della compassione che quell’uomo provava per lui, forse anche di qualche lacrima che gli scendeva sul viso, e avrà pensato risollevato: “per questo sconosciuto io sono importante. Posso sperare di vivere”.

L’uomo ferito vede le lacrime, le mani che lo disinfettano, lo caricano sulle spalle e che prendono le monete da anticipare all’albergatore. Prendersi cura vuol dire tutto questo. Dalle lacrime alle monete è un continuo rimetterci del proprio, per aiutare l’altro. Nel samaritano c’è tutto: cuore, rimedi, fatica fisica, ricerca, soldi.

È lo stile che distingue l’amore umile, concreto, non appariscente, che si propone ma non impone, gratuito, disponibile al servizio. L’amore si misura non da quello che si dà, ma da ciò che ci si toglie.

Ecco perché tutto questo non può interessare solo il gruppetto di persone di buona volontà che si impegnano coi poveri, ma quanti vanno all’Eucaristia domenicale, e vedono il pane che viene spezzato come prova di un grande amore e si sentono dire a conclusione: va e fa anche tu lo stesso.

Dice Papa Francesco: «La carità non si occupa solo dell’aspetto materiale e nemmeno solo di quello spirituale. La salvezza di Gesù abbraccia l’uomo intero. Abbiamo bisogno di una carità dedicata allo sviluppo integrale della persona: abbiamo bisogno che le Caritas e le comunità cristiane siano sempre in ricerca per servire tutto l’uomo, perché “l’uomo è la via della Chiesa”.Lo stile di Dio è quello della prossimità, della compassione e della tenerezza. Ma dalle espressioni del Signore ricaviamo anche l’invito alla denuncia: a proclamare la dignità umana quando è calpestata, far udire il grido soffocato dei poveri, è dare voce a chi non ne ha».

La seconda via indicata è quella del Vangelo. Nel Cenacolo vediamo Gesù in ginocchio che lava i piedi. Restiamo stupiti e perplessi, ma questo gesto, come altri, svelano chi è Gesù e il Padre che Lui è venuto a farci conoscere. Inchinato, col catino e la brocca in mano, svela la sua grandezza e la sua potenza divina: grandezza che è fatta di amore, di servizio e di umiltà. Ma che, per la sua modalità, suona strana, sorprendente, capovolta e paradossale. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un Dio imprevedibile.

Nessuno di noi avrebbe ‘inventato’ un Dio in ginocchio che lava i piedi. Solo Dio poteva arrivare a tanto! È un gesto che rivela la sua dignità, che si prolungherà sulla Croce, perché – è stato detto – lasciarsi inchiodare sulla croce è continuare a piegarsi sui piedi di tutti.

Il catino compendia la logica di amore, di servizio e di dono che ha guidato tutta la Sua esistenza: così si mette nelle mani del Padre, divenendone immagine e trasparenza.

La comunità cristiana non può non ripercorrere la strada del servizio. La Chiesa servendo rivela la sua dignità. Anche perché una chiesa che non serve non serve a niente.

Gesù dice: «Se comprendete questo e lo mettete in pratica, beati voi». Perciò il servizio e l’amore reciproco sono una beatitudine. Non è beato semplicemente chi conosce, ma chi conosce e pratica.

Lavarsi i piedi è più di una semplice abluzione. Significa inchinarsi sui nostri fratelli, toccare le loro ferite, come ha fatto il samaritano o Gesù col lebbroso. I poveri hanno bisogno di pane, ma anche di amore e di amicizia. È vero che toccare la ferita dell’altro sporca le mani, ma è un gesto necessario perché l’altro guarisca. È il nuovo comportamento proposto da Gesù ai suoi discepoli.

Il solo gesto della lavanda dei piedi, anche se esprime una grandissima umiltà, non è da solo la prova che Gesù ama «fino alla fine». Se viene presentata da Giovanni al posto dell’istituzione dell’Eucaristia significa che è un «segno profetico», enigmatico, che, come la chiave posta all’inizio del pentagramma, permette di leggere il senso della vita e della vicina morte di Gesù. Con questo gesto Gesù si mostra servo, si mette a totale disposizione degli uomini, senza tirarsi indietro neppure di fronte al Calvario, ultima conseguenza. Questo è stato il senso della sua incarnazione e dell’Eucaristia, nella quale Gesù, facendosi a pezzi per noi, si mette nelle nostre mani, a nostra disposizione, per essere il Dio fra noi, con noi e per noi.

La lavanda, dunque, non solo palesa un gesto importante fatto da Gesù, ma rivela chi è. Quel catino è un mistero paradossale: manifesta Dio a servizio dell’uomo. «Vi ho dato l’esempio»; non è solo un invito a ripetere il gesto del Cenacolo ma quanto Lui ha compiuto in tutta la sua vita; questo è quanto dobbiamo «fare» della nostra esistenza.

Due brevi considerazioni.

La prima. È stato notato che Gesù togliendosi le vesti, mostra che l’unica veste che conta è quella dell’amore. Il vestito fa le differenze e mostra le divisioni delle classi. La nudità, al contrario, smonta tale meccanismo sociale.

La seconda. Non è scritto nel Vangelo che Gesù si riveste dopo la lavanda. Quasi per dire che il suo abito normale è il grembiule più che il paramento sacro.

Se noi siamo la continuazione di Cristo, dobbiamo continuare col suo stile. Non siamo liberi di scegliere se servire i poveri o meno, perché col battesimo siamo stati schierati dalla loro parte.

Non c’è niente di più pericoloso del partecipare all’Eucaristia. Il Signore più che metterci a posto la coscienza, col Pane che si spezza, intende scuoterla. Alla fine della celebrazione con il: ‘va e fa anche tu lo stesso’ finale, dopo aver avuto lavati i piedi, ci viene consegnata la brocca piena d’acqua e un asciugamano. Altro che andare a messa solo per obbedienza a un precetto!

E infine la terza via: quella della creatività. “Non lasciatevi scoraggiare di fronte ai numeri crescenti di nuovi poveri e di nuove povertà. Contro il virus del pessimismo, immunizzatevi condividendo la gioia di essere una grande famiglia. In questa atmosfera lo Spirito Santo, che è creatore e creativo, e anche poeta, suggerirà idee nuove, adatte ai tempi che viviamo”.

Qualsiasi amore finisce se non è capace di fantasia e di creatività o se arriva a diventare abitudine, col tempo, stanca. Non c’è niente di più triste dell’abitudine nell’amore. Un po’ alla volta diventa un inferno. È necessaria la creatività anche perché l’amore risponde ai bisogni di chi chiede aiuto e attende risposte personalizzate. La carità non può essere programmata e stabilita in anticipo come una qualsiasi attività.

Prima della conclusione, permettetemi un post-scriptum.

Molti nostri gesti più che essere classificati sotto la voce “carità”, devono essere segnati sotto la voce “giustizia”. La prima dipende dalla nostra generosità, la seconda è un dovere da cui non possiamo esimerci. San Gregorio Magno diceva: «Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili, rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia». Già san Basilio si interrogava: «Le grandi ricchezze sono sospette. Da dove vengono, se non dall’ingiusto sfruttamento dei poveri. E perciò quello che ai poveri è stato tolto, al povero va restituito».

Un esempio. La giustizia richiede che non possiamo sentirci in pace sino a quando tutti i poveri non avranno un piatto di pasta sulla tavola, la carità è la preoccupazione di renderla gradevole aggiungendovi degli aromi. Questo perché anche i poveri hanno diritto alle piccole gioie della vita e non solo di ciò che è giusto.

Ecco perché – lo ripeto sempre – le nostre comunità, se vogliono vivere il Sinodo, non possono restare ingessate (come il fra­tello maggiore), indiffe­renti (come il sacer­dote e il le­vita), presun­tuose (come gli operai della prima ora), paurose (come gli apo­stoli scan­daliz­zati dei mi­racoli compiuti dagli altri), ma devono essere capaci e pronte di uscire dal tem­pio (dove si può anche pre­gare ma senza speranza come Zacca­ria), di scen­dere da Gerusa­lemme a Gerico (la strada dell’uomo mezzo morto), di percor­rere la via di Em­maus (la via dei viandanti senza speranza), di fer­marsi al pozzo della Samari­tana (luogo d’incontro di tanta gente lontana), di pas­sare dai riti alla cele­bra­zione dell’amore (Pie­tro e Gio­vanni guari­scono lo storpio, arrivando in ritardo alla preghiera).

Sento il bisogno di dirvi la mia gratitudine per quanto fate, e per farlo mi servo delle parole di Papa Francesco:

«E ora vorrei dirvi grazie! La Caritas può essere una palestra di vita per far scoprire a tanti giovani il senso del dono, il gusto buono di ritrovare sé stessi dedicando il proprio tempo agli altri. Così la Caritas stessa rimarrà giovane e creativa, manterrà uno sguardo semplice e diretto, che si rivolge senza paura verso l’Alto e verso l’altro, come fanno i bambini».

Card. Francesco Montenegro

Pisa, 20 novembre 2021