Il Cardinal Montenegro: ”L’Europa? Unione di egoismi”. L’intervista a ToscanaOggi

Pisa 2 dicembre 2021 (Da ToscanaOggi n.43/2021, di Francesco Paletti) – «L’Unione Europea? Per adesso è soprattutto un’unione di egoismi. Ma c’è un problema serio: la somma degli egoismi, non dà mai come risultato una comunità». Il cardinale Francesco Montenegro, 75 anni, lo spiega così il dramma dei migranti ammassati e bloccati al confine fra Polonia e Bielorussia, negli occhi ancora l’immagine del bambino siriano di appena un anno morto di freddo al confine della «fortezza Europa». Nella memoria, invece, quelle delle centinaia di naufraghi inghiottiti dal mare di Lampedusa e Linosa, di fronte alla “sua” Agrigento, la diocesi che ha guidato per 13 anni, fino all’agosto scorso, e in cui accompagnò Papa Francesco nello storico viaggio del 2013. Per otto anni è stato presidente della Caritas Italiana (fra il 2003 e il 2008 e di nuovo dal 2015 al 2018). Oggi è membro della Congregazione delle cause dei santi ed è stato chiamato dal Pontefice a far parte del Dicastero vaticano per lo sviluppo umano integrale. Sabato scorso, invece, era a Pisa, invitato dall’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto, ad animare l’assemblea diocesana delle Caritas  «Adesso è la Bielorussia prima erano stati,e rimangono, i Balcani e prima ancora la rotta mediterranea – dice Montenegro: la logica, purtroppo, è sempre la stessa …»

Qual è?

«Me lo lasci raccontare con un episodio che mi è capitato quando ero presidente di Caritas Italiana …»

Prego.

«Chiedemmo e alla fine riuscimmo ad ottenere un incontro con il presidente della Commissione europea: gli parlai a lungo della disattenzione dell’Unione Europea nei confronti dei migranti. Alla fine allargò le braccia e mi disse, sorridendo e quasi arreso: “Lei ha ragione, ma ha idea di quanti anni potranno servire per mettere d’accordo 28 paesi differenti?”. Il problema è tutto qui: al centro dell’Unione Europea abbiamo messo il denaro e non l’uomo.E questo, se mi permette, è una questione che ci riguarda anche come comunità cristiana …».

L’indifferenza è un problema anche per le parrocchie e il tessuto ecclesiale?

«Direi più che altro la paura. Non solo dei migranti, anche e soprattutto della povertà. La paura, in questi mesi alimentata anche dalla pandemia, rischia di farci prendere posizioni che ci mettono fuori dal Vangelo»

A che cosa si riferisce?

«A molte cose. In generale al rapporto fra i poveri e le nostre comunità: finora sono stati sempre quelli che stanno alla porta. Se entrano, le nostre organizzazioni sono così perfette che li spostano verso l’esterno perché disturbano. Eppure il Vangelo ci ha dato due sacramenti: l’eucarestia e i poveri. Noi, però, celebriamo la prima, lasciando ai margini i secondi. Al massimo sono utili solo come unità di misura della nostra bontà …»

In che senso?

«Consideriamo i poveri alla stregua del gregario che ci porta la borraccia. Ci servono per consentirci di farci dire: “Se non ci fossimo noi ad aiutarli, chissà che cosa accadrebbe”. Ma i poveri non sono sgabelli per salire in Paradiso»

Che cosa sono?

«Il dito nella piaga delle nostre contraddizioni ma non possiamo comprenderlo se non li ascoltiamo, anche quando c’insultano, e se non cominciamo a guardare il mondo dal loro punto di vista. Ci disturbano e ci fanno paura perché sono lo specchio delle nostre miserie: ci ricordano che la nostra fede e la nostra vita non sono come dovrebbero essere».

La pandemia ha accentuato questi atteggiamenti?

«Può darsi. Anche se l’emergenza sanitaria e le sue conseguenze economiche e sociali, a mio parere è stata provvidenziale perché in realtà non ha dato origine a problemi e vulnerabilità nuove, ma ha accentuato e acuito in modo impressionante quelle che gli preesistevano. Insomma, è scomparso il tappeto sotto cui nascondevamo lo sporco. Adesso è tutto alla luce del sole»

Al riguardo il Sinodo può essere un’opportunità anche in questo senso?

«Quello è l’obiettivo. Mai come in questo tempo c’è bisogno di una Chiesa di strada, capace di fare amicizia con il mondo e farsi carico delle sue fragilità e vulnerabilità. Ma perché accada è fondamentale che tutti siano coinvolti, a cominciare dai poveri che debbono essere una componente essenziale del cammino che ci attende. Con il Concilio, la cui lezione forse non è stata meditata a sufficienza, e con la nascita delle Caritas, abbiamo fatto sicuramente dei passi avanti verso la condivisione. Ma di strada da percorrere ce n’è ancora molta»

Dal Sinodo lei che cosa si attende?

«Che metta i poveri al centro e che cancelli dal nostro linguaggio il verbo “delegare” e l’idea che lo accompagna …».

Mettere i poveri al centro è quasi un titolo: ma cosa vuol dire concretamente?

«Glielo racconto con un episodio che è capitato durante una celebrazione che stavo presiedendo. Vicino alla mia chiesa c’era un senza dimora che, ogni mattina alla messa delle otto, arrivava ubriaco e chiedeva soldi. Fece lo stesso anche una domenica mattina e io dissi: “Chi vuole, glieli dia, oggi non passerò con il cestino”. Poi si sedette in fondo alla chiesa, in silenzio, e cominciò a contare i soldi. Restammo a guardarlo e ascoltarlo: quella domenica non feci omelia. Sa perché glielo racconto?»

Sinceramente no.

«Alla fine della celebrazione vennero da me due coppie che fra loro non si conoscevano e mi chiesero di cominciare a fare a servizio accanto agli ultimi e ai più vulnerabili. Ciò che fece quell’uomo, durante quella celebrazione, a me non è mai riuscito: con le mie omelie, non sono mai stato capace di convincere qualcuno a fare la carità».