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Le bambine di Birkenau. La testimonianza di Andra e Tatiana Bucci, deportate all’età di 4 e 6 anni, sopravvissute al lager

“La conferma che ce l’abbiamo fatta ce l’abbiamo ogni volta che guardiamo i nostri figli e nipoti: li cerchiamo con lo sguardo per avere la certezza che abbiamo davvero vinto noi, che la vita ha avuto la meglio sulla morte”. Alla fine si sciolgono davvero nel più bello dei sorrisi quelle due sorelle di 77 e 79 anni, dai modi educati e quasi riservati. Che fra il marzo ’44 e il gennaio ’45 sprofondarono in un baratro di disumanità e disperazione. Si chiamano Andra e Tatiana Bucci, da due anni sono cittadine onorarie di Pisa e all’epoca dei fatti, quando furono deportate nel campo di Birkenau-Auschwitz, insieme al cuginetto Sergio, alla mamma Mira e alla zia Giselle, aveva, rispettivamente, quattro e sei anni.
«Entrammo in un caseggiato di mattoni e da lì, dopo esser state spogliate e rivestite, ci misero in fila indiana in una cameretta: a turno dovevamo porgere il braccio sinistro ad un inserviente il quale vi avrebbe tatuato un numero progressivo» ha raccontato Andra venerdi sera in un’affollatissima Biblioteca dell’ex convento dei Cappuccini di San Giusto ricordando i primissi giorni ad Auschwitz. «A mamma che ci precedeva fu assegnato il 76482, a me il 76483 e a Tatiana che era dietro il 76484 – ha proseguito -: uscite di là, mamma si diresse nella baracca delle donne, noi in quelle dei bambini. Era iniziata la nuova vita nel lager: io avevo 4 anni, la Tati sei».
«Mamma veniva a trovarci ogni volta che poteva e tutte le volte ci ripeteva, quasi in modo ossessivo, i nostri nomi, non voleva che ce ne dimenticassimo – aggiunge Tatiana -. Però, da un certo punto in poi non venne più e a noi venne naturale pensare che fosse morta: ce lo dicemmo come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza provare dolore. D’altronde la morte era quasi una compagna di giochi dato che trascorrevamo tantissimo tempo giocando attorno alle cataste di cadaveri imbiancate dalla calce che i tedeschi vi buttavano per evitare il proliferare di malattie».

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Alle sorelline dedicava un po’ di tempo soltanto la “blockowa” della loro baracca, ossia la prigioniera cui era stato affidato il compito di sorvegliare la baracca dei bambini: «Un giorno ci disse che di lì a poco sarebbe venuto un medico a chiederci se volevamo rivedere la mamma e che noi avremmo dovuto rispondere di no. Noi ubbidimmo, nostro cugino Sergio no: di lì a poco salirà su camion diretto al campo di Neungamme, vicino ad Amburgo, e quella è stata l’ultima volta che lo abbiamo visto». Mengele autorizzò il trasferimento per fare su di loro esperimenti medici finalizzati a debellare la tubercolosi. Dopo inaudite sofferenze, furono uccisi e bruciati quando gli alleati erano ormai alle porte per nascondere le nefandezze e gli orrori compiuti.

Biblioteca

La loro storia è stata scoperta e raccontata da Gunther Schwarberg, giornalista tedesco del settimanale “Stern”, che sostanzialmente “adottò” i venti bambini impegnandosi per tutta la vita a ricostruirne la vicenda umana e per raccontare la verità, adoperandosi per la condanna dei colpevoli. «Schwarberg è stata una persona importantissima della mia vita, a cui devo tantissimo – ha ricordato Tatiana -: non ho perdonato i tedeschi, perché certi orrori sono quasi impossibili da perdonare e perché serviresse che qualcuno lo chiedesse, ma grazie a Schwarberg mi sono resa conto che i tedeschi non sono tutti da nazisti e che fra loro ci sono anche persone per bene».

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Auschwitz fu liberata il 27 gennaio 1945. Le bambine furono trasferite prima in un vicino orfanotrofio e poi a Praga, in un istituto religioso grazie al quale cominciarono a frequentare le elementari. Quindi l’ulteriore trasferimento in Inghilterra e qui, Lingfield e qui vengono contattati dai genitori che non era assolutamente scomparsi.L’abbraccio con la mamma avverrà nel dicembre ’46.