Ultimissime

Cinque piste d’impegno per educare alla “carità della porta accanto”. Le conclusioni pastorali del Rapporto 2019 sulle povertà di Caritas Toscana

Il rapporto regionale sulle povertà, come ogni anno, provoca la comunità ecclesiale di cui Caritas è esperienza ed espressione ad essere fedele al mandato ricevuto dal Signore Gesù che è quello di mettere i poveri al centro della propria attività e della propria identità.

Il “Rapporto povertà” deve essere, necessariamente, un prodotto che ha una solida base scientifica, dei dati coerenti e completi, un impianto di ricerca che sia sociologicamente adeguato; deve evidenziare le tendenze in atto e, consegnato alle istituzioni, ci auspichiamo che sia strumento utile per elaborare strategie di contrasto alla povertà sulla base di fenomeni di impoverimento reali.

Per la comunuità ecclesiale uno strumento del genere può risultare ostico, arido e lontano.

Per questo il linguaggio sociologico deve essere tradotto in linguaggio pastorale.

È il compito della Caritas, la sua “prevalente funzione pedagogica”: tradurre i “numeri e le tabelle” di questo “Rapporto povertà” in indicazioni di cammino per le nostre comunità ecclesiali.

In queste conclusioni proveremo, allora, a far parlare la vita dei poveri, il loro bisogno di essere ascoltati, accolti, accompagnati e restituiti alla dignità che gli è propria, che i CdA delle Caritas della Toscana intercettano, alla vita della chiesa; una sorta di restituzione in termini di “buona notizia”. I bisogni delle persone che abbiamo incontrato diventano provocazione al cambiamento, alla conversione della vita per tutta la comunità ecclesiale. Tutta la chiesa viene “salvata” grazie all’incontro con i poveri.

Ci ricorda Enzo Bianchi “I poveri vanno dunque letti come categoria cristologica: ci dicono qualcosa di Gesù Cristo perché hanno una comunione con lui non solo nella sofferenza ma anche nella fede e nella speranza. I poveri non sono meri destinatari della nostra cura e della nostra carità ma sono soggetti che ci possono evangelizzare, detentori di un magistero al quale non siamo attenti e verso il quale non esercitiamo il nostro discernimento: hanno molto da insegnarci. Nella Evangelii Gaudium papa Francesco scrive che “dobbiamo lasciarci evangelizzare da loro” (EG 198), perché nelle loro esistenze c’è una forza salvifica, quella della croce che è stoltezza per il mondo ma in realtà salvezza e potenza di Dio (cf. 1Cor 1,18). I poveri sono in grado di evangelizzare la chiesa nel senso che sono come gli “anawim” dell’Antico Testamento, quei poveri-curvati che attendevano tutto dal Signore, e di conseguenza erano pronti a riconoscere la sua venuta, fino a farsene annunciatori presso la comunità dei credenti.

I poveri sono il sacramento di Cristo, “una presenza del Signore”, ma sono anche il segno delle nostre ingiustizie e perciò possiedono una cattedra, un magistero che le chiese devono ascoltare. Mi rallegrai molto quando il cardinale Carlo Maria Martini prese l’iniziativa di una “cattedra dei non credenti”, alla quale partecipai, affermando tra l’altro che essa sarebbe dovuta proseguire con una “cattedra dei poveri”: questo perché i poveri – in una società e in una chiesa in cui “i poveri” sono ancora e sempre “gli altri” – possano prendere la parola, dirsi, farsi conoscere, avvicinarsi, in modo che sia possibile toccarli come “carne di Cristo”, stringere la loro mano, abbracciarli e guardarli negli occhi. Proprio come Gesù toccava i poveri e i malati, abbracciava i bisognosi, stava a tavola con gli scarti della società, gli impuri e gli emarginati”.

 Un primo impegno.

Le Caritas della Toscana sono chiamate a far riscoprire alle loro chiese locali il “carisma della soglia”. Siamo consapevoli e preoccupati della distanza, che noi per primi registriamo, tra un atteggiamento diffuso di non accoglienza e di intolleranza nelle nostre comunità ecclesiali nei confronti dell’altro e del diverso e la lettera e lo spirito del Vangelo di Gesù.

Per questo siamo sempre più convinti che dobbiamo diventare sempre di più una chiesa in uscita, una chiesa, cioè, che sa da dove viene e dove va, una chiesa estroversa, che esce per le strade del mondo, là dove l’uomo vive, capace di stare in compagnia di tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

Quando, con l’affermarsi della cristianità dopo il regno di Costantino, si cominciò a organizzare la carità, creando associazioni e luoghi in cui ospitare le persone senza casa, un grande padre della Chiesa, per il quale i poveri erano veramente sacramento di Cristo, gridò in una sua predica: «Non create questi xenodochèia (“case per gli stranieri”)! Infatti, assegnando l’opera dell’ospitalità a istituzioni particolari, i cristiani perderanno l’abitudine di riservare un letto nella propria casa e di tenere il pane pronto per i poveri: le case dei cristiani cesseranno così di essere case cristiane!» (Giovanni Crisostomo, citato in Ivan Illich, Il pervertimento del cristianesimo, Macerata, Quodlibet, 2008, pp. 23-24).

La scelta di “farsi prossimi”, l’assunzione della “prossimità” come stile e della “compagnia” come atteggimento devono caratterizzare la qualità della vita delle nostre comunità ecclesiali.

Prima ancora che “promuovere servizi”, a volte necessari, siamo chiamati a educare le nostre comunità alla “carità della porta accanto”, che si esprime nella capacità di offrire beni relazionali, relazione di aiuto che dura nel tempo, accompagnamento.

È la sfida a far riscoprire alle comunità ecclesiali di base (parrocchie, unità pastorali) il carisma di san Vincenzo de’ Paoli che papa Francesco riconsegna alla chiesa invitandola ad “…imparare ad uscire da noi stessi per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. Questo è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, ed “uscire” incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre!”.

 Un secondo impegno.

Le Caritas della Toscana sono consapevoli di essere chiamate a risolvere antiche contraddizioni come quella che vede contrapposta la spiritualità e l’efficienza o la professionalità e l’agire volontario. Non abbiamo l’anima divisa a metà e siamo consapevoli che abbiamo bisogno di “radici e ali”. Le radici sono la fedeltà alla Parola letta e meditata nella chiesa e le ali sono il coraggio di non fermarsi quando c’è ancora tanta strada da fare per essere fedeli oggi al progetto di Dio sulla nostra vita.

Caritas è esperienza ed espressione della chiesa che sperimenta riconciliazione tra il cuore e le mani, tra il saper fare ed il saper essere e vorremmo contaminare di questa consapevolezza tutta la comunità ecclesiale. Vogliamo essere testimoni nella comunità ecclesiale che è possibile e bello vivere riconciliati, integrare la fede con la vita, sporcarsi le mani nel gesto del servizio e alzare quelle mani sporcate dalla vita dei poveri nel segno dell’invocazione.

 Un terzo impegno.

Come Caritas siamo al servizio della comunità ecclesiale, perché tutta testimoni il vangelo della carità, per questo (e sappiamo di dire una cosa paradossale…) non ci interessa tanto la “Caritas” ma ci interessa che tutta la chiesa testimoni il vangelo della carità.

Il modello di Chiesa che la Caritas vuole animare è quello di una chiesa in uscita, ospedale da campo, tempo e spazio di ospitalità per chiunque abbia bisogno di fermarsi e riposare.

Ecco allora la sfida di generare opere che rispondono ai bisogni e che siano “segno”.

Individuiamo sette caratteristiche che, secondo noi, rendono “significative” oggi le nostre opere.

  1. Espressione ed esperienza di chiesa

Le opere della chiesa devono sentirsi, essere sentite ed essere espressione della comunità cristiana. Perciò la sperimentazione del nuovo e l’aggiornamento del tradizionale vanno sempre considerati all’interno del programma pastorale della chiesa locale, della zona pastorale o della parrocchia, perché tutta la comunità sia e si senta responsabile di quanto viene attuato nel nome del Signore al servizio dei fratelli.

Siamo preoccupati quando succede che vengano promosse esperienze, iniziative, opere, servizi con il desiderio di dare in qualche modo una maggiore consistenza ed una maggiore visibilità alla comunità stessa. È una forma comunitaria, collettiva di ricerca di sé.

È importante che nelle opere promosse dalla comunità ecclesiale non sopravviva, nel modo con cui esse si pongono in relazione con i più deboli, il vecchio atteggiamento di beneficenza che crea dipendenza, non libera le persone ma aiuta dall’alto. Ci ricordiamo di quanto ha detto papa Francesco: “che ogni uomo guardi un altro uomo dall’ alto in basso, solamente quando deve aiutarlo a sollevarsi”.

  1. La scelta educativa

La pedagogia dei fatti è quell’attenzione educativa che si pone come obiettivo la crescita di ogni persona e dell’intera comunità cristiana attraverso esperienza concrete, significative e partecipate. (Caritas Italiana, Carta pastorale, Da questo vi riconosceranno, 37) Allora, dentro le esperienze che costruiamo (e dentro ogni nostro fare) tutto è (…e dobbiamo creare le condizioni perché sia) occasione per crescere in umanità e nella fede. Questo accade quando siamo capaci di riempire di intenzionalità educativa i nostri gesti e le nostre opere. Occorre costruire “opere segno” che riescano a parlare alla vita… e a farla camminare verso la sua pienezza (cfr. Gv 10,10).

In questa prospettiva si collocano i percorsi di animazione delle comunità alla testimonianza della carità. Sono un impegno che connota l’agire quotidiano delle nostre Caritas che le vedono coinvolte in tantissimi percorsi di animazione con i giovani ed i ragazzi nelle parrocchie e nelle scuole.

  1. Dinamicità flessibile

Le nostre opere devono esprimere in sé il senso della provvisorietà, devono stare sul “presente” perché le opere di assistenza devono esistere solo in funzione dei bisogni reali e devono modificarsi in rapporto alla modificazione dei bisogni che ne hanno suggerito la nascita.

  1. Esemplarità

Le opere della chiesa devono avere la caratteristica della esemplarità per la qualità dei servizi (efficacia, efficienza e qualità); per la qualificazione del personale (investire in formazione); per la promozione umana degli utenti (affermare la centralità della persona); per l’assenza di qualunque discriminazione fra ricchi e poveri e per l’eliminazione del lucro e del profitto (ONLUS).

  1. Profezia

Le opere della chiesa devono concretarsi verso gli spazi umani dei più poveri e dei più emarginati, scegliendo i bisogni scoperti, là dove la presenza dei cristiani assume chiaramente carattere di profezia. Un’opera è segno quando sceglie mezzi poveri (sobrietà e semplicità).

  1. La qualità nelle relazioni interpersonali

In ordine alla promozione umana delle persone accolte e assisitite emerge l’esigenza di orientarsi a creare alternative ai “grandi istituti”, che sono spesso emarginanti, attraverso servizi che facilitino i rapporti personali e il clima di famiglia. Segni concreti di tale prospettiva sono il sorgere in molti luoghi di case famiglia, comunità alloggio, oltre al moltiplicarsi dell’accoglienza dei minori e dell’affidamento.

  1. Il lavoro di rete

Siamo consapevoli di essere “nodo” di una rete di realtà significative; siamo consapevoli che, per fortuna, non siamo soli e che ogni giorno sperimentiamo la compagnia di tanti uomini e donne di buona volontà che “temono dio praticando la giustizia” (cfr. At 10,34).

Caritas si sente e vuole essere compagna di viaggio di tutte queste realtà per costruire “insieme” una società più giusta perché più inclusiva, più accogliente e più fraterna.

Siamo convinti che solo il “noi” possa essere protagonista di un vero cambiamento sociale.

 

Questa lunga riflessione esige una costante conversione dello stile dei servizi che promuoviamo e facciamo sia come Caritas che come terzo settore, perché siano decisamente sbilanciati sulla promozione piuttosto che sull’assistenza; ma è necessario che anche il nostro sistema di welfare si sposti decisamente sui percorsi esigenti e coraggiosi della “generatività”, abbandonando, per esempio, la strada dei “voucher” e privilegiando quella delle “relazioni”.

 Un quarto impegno

Come Caritas della Toscana siamo in prima linea con i nostri Centri’Ascolto. Questo “Rapporto” è possibile grazie all’azione quotidiana, appassionata e competente di tanti operatori e volontari che si mettono in ascolto del “grido dei poveri”, grido a volte sommesso e spezzato. Senza l’azione di migliaia di volontari, ai quali va il nostro profondo ringraziamento, niente di quello che facciamo sarebbe possibile.

Proprio per questo siamo convinti che dobbiamo investire sulla capacità delle nostre reti di fare discernimento per superare il “corto circuito” della “domanda/risposta”.

Siamo convinti che dobbiamo uscire dall’urgenza di dare risposte e metterci nella logica della prevenzione perché il nostro compito non è solo quello di aiutare i poveri contrastando le povertà ma anche e sopratutto quello prevenire l’insorgere di vecchie e nuove forme di povertà.

Crediamo importante incontrare le persone, ascoltarne le domande, individuarne i bisogni e costruire insieme percorsi di uscita.

Su questo stile di lavoro vorremmo sperimentare la compagni dei servizi sociali pubblici.

Succede, invece, troppo spesso di sperimentare che per i “servizi sociali territoriali” siamo risorsa alla quale delegare interventi in emergenza.

Come Caritas della Toscana auspichiamo un rapporto qualitativamente diverso, che accantoni definitivamente lo stile della delega o dell’integrazione subalterna (utili solo se e fino a quando…) ma che, ciascuno con il proprio ruolo e le proprie competenze, favorisca il bene della persona incontrata e accolta e che abbia come obiettivo non l’assitenza ma la promozione.

 Un quinto impegno

Come Caritas della Toscana sentiamo il bisogno di sperimetare modi e forme di “pastorale integrata”. Siamo convinti che i “poveri non siano della caritas” ma siano un “caso di coscienza collettivo” che chiede a tutta la comunità ecclesiale di sperimentare comunione, condivisione e coprogettualità.

Il coinvolgimento di altre pastorali è obiettivo primo e principale dell’agire delle Caritas in Toscana, per es. costruendo con la pastorale familiare progetti a favore delle coppie “scoppiate” o con la pastorale giovanile percorsi ed interventi sulla “povertà educativa” o con la Pastorale Sociale e del Lavoro sull’individuazione di percorsi di accompagnamento verso l’assunzione di responsabilità lavorative.

L’esperienza del Servizio Civile, con la quale esprimiamo la sollecitudine della chiesa rispetto ai giovani, ci porta a cercare, nella comunità ecclesiale, un confronto sulla “questione giovani”. Molti dei ragazzi che incontriamo non hanno percorsi di fede strutturati e durante il tempo del servizio hanno l’opportunità di incontrare un volto di chiesa che è ancora capace di “innamorare”. Le Caritas della Toscana sperimentano il loro essere ponte per l’incontro con i giovani lontani dai cammini di fede e si sentono provocate ad esprimere il “cuore” della fede con nuova passione e nuovi linguaggi.

Il fatto che molte delle persone che incontriamo abbia una fede diversa da quella cristiana obbliga le Caritas della Toscana, e con loro tutte le nostre chiese locali, ad promuovere percorsi di dialogo interreligioso. Siamo consapevoli che custodire, coltivare e, dove è venuto a mancare, recuperare il valore del dialogo è una sfida contemporanea: “l’autentico dialogo e quindi ogni reale compimento della relazione interumana significa accettazione dell’alterità” (cfr. M. Buber). Per questo le identità sono ancoraggi saldi e irrinunciabili, ma non devono diventare trappole per catturare e dividere i popoli. Il rimedio è il dialogo. Attraverso il dialogo identità diverse imparano a conoscersi ed a rispettarsi reciprocamente, sia per quel che hanno in comune, sia per quel che le rende differenti. È pazzesco pensare che specialmente le tre grandi religioni monoteistiche, i tre rami della famiglia di Abramo, siano destinate a scontrarsi e non, invece, a convivere pacificamente, pur nella loro diversità.

Siamo convinti che questo stile di lavoro pastorale ci obblighi, tutti, a rimodulare i nostri percorsi formativi, a sperimentare nuovi paradigmi formativi, a riscoprire le potenzialità che ogni attenzione pastorale ha a scegliere insime la via dell’ascolto e della relazione con le persone.

 Un ultima considerazione

Ci lasciamo verificare dalle parole di papa Francesco che nei sui gesti quotidiani sa esprimere una vera povertà cristologica o una cristologia della povertà, con accenti che ricordano i profeti dell’antica alleanza o i padri della chiesa. Significativamente ha detto più volte che “il povero è un vicario di Cristo”, proprio lui che mai si definisce il vicario di Cristo. Con audacia si è anche espresso manifestando questo desiderio evangelico: “Quanto vorrei che le comunità in preghiera, quando entra un povero in chiesa, si inginocchiassero in venerazione allo stesso modo come quando entra il Santo Sacramento” (Alla Caritas di Roma, 28 aprile 2015).

Le Caritas della Toscana, con questo rapporto sulle povertà incontrate dei Centri d’Ascolto, vogliono raccontare di una chiesa che, consapevole dei propri limiti, si inginocchia davanti a tutte le persone che incontra, perché sono convinte che essi sono il sacramento storico del Signore Gesù.