Siamo una società civile quando ”dichiariamo guerra” alla povertà. L’intervento del direttore don Emanuele Morelli su Equagenda 2016

Provate ad immaginare un mondo in cui tutti pensano allo stesso modo, vestono con gli stessi vestiti e parlano la stessa lingua… Solo immaginarlo mi rende triste. Un mondo così è noioso e grigio. A me, invece, piace un mondo a colori dove la diversità sia la nostra ricchezza, accogliendo la sfida di comporla in armonia. Affermare il diritto ad essere diversi diventa oggi necessario. Si, siamo tutti uguali proprio perché siamo tutti diversi.

Il problema nasce quando non riusciamo a comporre e valorizzare la diversità, e questa si declina con il vocabolario delle minori opportunità, della disuguaglianza e dell’esclusione sociale e diventa condizione di impoverimento e di deprivazione. La povertà colora di nero la diversità perché genera minori opportunità di vita. E non mi riferisco solo alla povertà economica ma anche e soprattutto alla povertà relazionale. Siamo società civile quando “dichiariamo guerra” alla povertà costruendo percorsi di inclusione sociale. Io credo che una società sia davvero “civile” quando include, quando non lascia nessuno indietro, quando offre a tutti pari opportunità di crescita, quando investe sul capitale umano, quando accompagna, confronta, conforta e verifica, quando “crede negli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani”.

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Quali percorsi di inclusione allora?
Il primo. Generare relazioni corte e calde. Viviamo troppo distanti gli uni dagli altri. Sembriamo preferire il virtuale al reale ma siamo consapevoli che l’alternativa all’intimità è la disperazione e l’isolamento.
Il secondo. Condividere quello che siamo e quello che abbiamo, fossero anche le “briciole”. Per combattere la povertà occorre metterci del nostro. Siamo consapevoli che “solo il pane condiviso può essere moltiplicato”. Io credo che il primo e più profondo antidoto alla crisi sia re-imparare la cultura del dono di sé.
Il terzo. La sfida è culturale. Occorre costruire percorsi che parlano alla vita della gente, non alla testa né alla pancia ma alla vita. Costruendo percorsi di partecipazione e di protagonismo riusciremo a generare ricchezza perché dalla crisi possiamo uscirci solo insieme praticando un nuovo modo di vivere.
Il quarto. Cambiare le politiche. Auspico politiche che mettano davvero al centro gli ultimi. Occorre trasformare il welfare da assistenziale a generativo, che promuove umanità libera e consapevole, che si accorge delle “gemme terminali”, le possibilità di ogni umano, le sostiene, le potenzia e le valorizza.