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“Sviluppare l’integrazione investendo sulle persone”. L’intervista a Jacopo Storni, l’autore del libro sull’immigrazione “l’Italia siamo noi”

jacopo storniPisa, 31 maggio 2016 – Sono italiani nati e cresciuti all’estero, ma che hanno eletto il nostro Paese come patria adottiva. Gli immigrati raccontati dal giornalista Jacopo Storni ne “L’Italia siamo noi” sfatano i luoghi comuni che da sempre li vedono protagonisti, e che da ormai troppo tempo sono radicati nel pensiero collettivo. Badanti o braccianti, profughi o bisognosi. Queste le uniche aspirazioni a cui, secondo noi italiani, gli extracomunitari possono aspirare. Storni, però, ci apre gli occhi: tra gli avvocati, imprenditori, medici e ingegneri (che contribuiscono allo sviluppo economico tricolore) ci sono anche quegli stessi stranieri che le chiacchiere destinano a non avere una posizione.

Storni, perché ha deciso di raccontare le storie di questi professionisti?

«L’idea nasce da una frustrazione di fondo: i media trasmettono sempre l’immagine dell’extracomunitario come bassa manovalanza, quando invece molti di loro occupano posizioni di rilievo nella nostra società. Ho voluto scrivere di queste persone per combattere un preconcetto».

Quanto è ancora radicato tale stereotipo nella nostra cultura?

«Praticamente è totale. Se si scrive su “google immagini” la parola immigrato spuntano foto di barconi e profughi. È una visione, purtroppo, consolidata soprattutto in Italia e la differenza rispetto agli altri Paesi è notevole».

Come si può cambiare visione?

«Bisogna ribaltare i sistemi di comunicazione, mutare l’approccio. È fondamentale, inoltre, sviluppare l’integrazione investendo su queste persone. Solo così si potrà guardare oltre».

Lei lo ha già fatto…

«Ho parlato ne ”L’Italia siamo noi” di persone che ho conosciuto grazie al mio lavoro, e che meritano di essere menzione per il loro percorso di vita. Quattordici testimonianze di individui, che raccontano una storia molto simile a quella di tanti altri ma allo stesso tempo speciale per il loro vissuto».

michele bulzomì